Tecnica e responsabilità

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L’uomo nasce animale tecnologico. La scaturigine della sua forza vige nella straordinaria abilità di costruire protesi che suppliscano alla propria debolezza, mediando con la realtà. Una pietra per rompere una noce, un bastone come ausilio per camminare, un ponte di legno: sono tutti esempi rudimentali di interfaccia. Artefatti semplici, tangibili. Afferrare la loro natura – in linea di principio – non richiede una presa di posizione morale. Le cose iniziano a complicarsi nel mentre in cui il livello simbolico delle produzioni umane aumenta al pari dell’articolazione e della stratificazione del contesto. Stiamo parlando dell’età in cui la tecnologia viene ascritta all’impresa scientifica e alla relativa mitologia di settore: la modernità, territorio figurativo ove i manufatti tecnici mediano a livelli astratti, in maniera sottile, smaterializzandosi, entrando nei circuiti dell’informatica; ed è proprio grazie a questa disciplina che la tecno-scienza può permeare la società civile nel suo complesso. Macchinari, sistemi e congegni hi-tech entrano in simbiosi con l’ambiente divenendo incontestabili, obbligando ciascun cittadino a servirsene come imprescindibili chiavi d’accesso alla realtà.


Oggi l’hi-tech è, per l’uomo medio, condizione base (non opzionale) per giungere alla soglia di “normalità” (diciamo così) e accedere al mondo circostante, confluire nella maggioranza ridotta ad agglomerato, a cliente terminale.
Una seria riflessione sul grado di artificialità raggiunta, si fa perciò indispensabile. Le strumentazioni tecniche attuali non sono più nemmeno lontanamente paragonabili alle loro antesignane; giacché intervengono profondamente non più soltanto sui codici di relazionalità, plasmando le trame di significazione e ampliando il campo d’azione personale, ma bensì producono nuovi bisogni, imputano esigenze e obbligano all’intermediazione specializzata, plasmano la topologia mentale dell’utente, influenzano la qualità dei legami sociali, il senso comune, ed esercitano un monopolio radicale qualora l’intera società venga organizzata in virtù dell’agevolare coloro che ne fanno un uso massiccio, imponendo quantomeno la dose minima anche a chi ne farebbe volentieri a meno.
Fino a che punto tutti i nostri oggetti e invenzioni hi-tech rispondono ad un reale bisogno cui far fronte, cioè al libero desiderio di usufruirne, e quando invece arrivano ad imporsi, a metterci nelle condizioni tali da non poterne prescindere?
La tecno-scienza, ricordiamocelo, di per sé non è in grado di stabilire una rotta, ossia è incapace di capire “dove vada”: essa è eticamente cieca. Finisce piuttosto col trascinare l’uomo verso un destino inteso non come progetto intenzionale, quanto come somma delle singole, specifiche e miopi innovazioni di cui vengono contemplate le sole opportunità remunerative o gli sbocchi sul mercato; non messe in conto le eventuali derive nel lungo periodo.
L’imperativo corrente, il mantra ciecamente fiducioso del richiedere tutto quanto sia possibile realizzare, non ci porterà molto lontano. Auguriamoci che la nostra ultima parola in merito sia nell’ordine del Buon Senso.

di Michele Cavejari

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