Rising Phoenix – La storia delle paralimpiadi
Il 4 marzo inizieranno i giochi paralimpici invernali di Pechino 2022. In questo quarto e ultimo appuntamento della rubrica culturale dedicata ai giochi olimpici vi consigliamo la visione di “Rising Phoenix – La storia delle paralimpiadi”.
Il 2020, anno in cui si sarebbero dovuti disputare i giochi estivi di Tokyo, avrebbe dovuto essere un anno speciale per il movimento paralimpico: ricorreva infatti il sessantesimo anniversario delle prime paralimpiadi, tenutesi a Roma nel 1960. Nonostante l’evento fosse stato posticipato all’anno successivo, Netflix decise comunque di celebrare questa importante ricorrenza con un documentario, Rising Phoenix – La storia delle paralimpiadi, disponibile da fine agosto 2020, periodo in cui avrebbero dovuto iniziare i giochi.
Il documentario, prodotto nel Regno Unito e diretto da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui, ripercorre la storia delle paralimpiadi dalla loro ideazione fino alla tormentata edizione di Rio 2016, intrecciando le storie di alcuni degli atleti più celebri degli ultimi anni.
«Quando avevo 12 anni facevo parte di un gruppo scout. Ognuno aveva un soprannome. Il mio era Fenice Radiosa – Rising Phoenix nella versione originale – perché la fenice può vivere, morire, bruciare e rivivere. Il mio gruppo scout mi ha seguito in ogni passo: vivere, bruciare, morire e poi rivivere». Così Bebe Vio, l’unica atleta italiana intervistata, spiega l’origine del titolo. Oltre alla sue, sono presenti le testimonianze di atleti provenienti da Australia, Francia, Sud Africa, Cina, Stati Uniti, Regno Unito e quelle di organizzatori di varie edizioni.
Se il barone francese Pierre de Coubertin è noto per aver ideato i giochi olimpici moderni, le paralimpiadi sono state possibili grazie alla lungimiranza di un medico tedesco di religione ebraica: Ludwig Guttmann. Quando iniziarono le persecuzioni da parte dei nazisti, Guttmann fece ricoverare nell’ospedale in cui lavorava decine di persone che per diversi motivi rischiavano di essere deportate nei campi e giustificò alla Gestapo ognuno dei ricoveri inventando le diagnosi. In questo modo riuscì a salvare circa 60 persone, ma per la sicurezza della sua famiglia decise di emigrare nel Regno Unito. Qui si occupò di riabilitazione di ex combattenti che avevano subito traumi alla colonna vertebrale. Iniziò a organizzare eventi sportivi per consentire ai suoi pazienti di mettersi alla prova e iniziare un percorso di accettazione e normalizzazione delle loro nuove condizioni fisiche. Il suo obiettivo era quello di accompagnare i suoi pazienti in un percorso che li avrebbe resi dei “taxpayer”, allontanandoli cioè dalla convinzione di essere dei semplici sopravvissuti e far conquistare loro un’autonomia che li avrebbe portati ad essere dei cittadini che apportano il proprio contributo alla società.
Guttmann riuscì a vedere le prime edizioni delle paralimpiadi, ma morì nel 1980, anno in cui l’Unione Sovietica, che ospitava le olimpiadi, si rifiutò di organizzare le paralimpiadi affermando che non esistevano persone con disabilità nel suo territorio. Guttmann aveva però lasciato un’eredità inestimabile: le paralimpiadi erano già una realtà consolidata e nel 1980 non era più possibile ignorare le persone con disabilità come in precedenza. Le paralimpiadi del 1980 ebbero perciò luogo nei Paesi Bassi. Le edizioni successive furono però segnate da alti e bassi: «Se è facile, non è paralimpico» dice Xavier Gonzalez, ex direttore esecutivo del comitato paralimpico internazionale. Le difficoltà nell’organizzazione di quello che è uno degli eventi sportivi più seguiti al mondo restano legate ai pregiudizi di chi vede nei giochi paralimpici un investimento meno redditizio rispetto alle olimpiadi: scarsa promozione dell’evento con conseguente bassa vendita di biglietti, come successe ad Atlanta, o addirittura il rischio di cancellare le paralimpiadi perché il comitato aveva speso tutti i soldi per le olimpiadi, come successe a Rio. Grazie alla caparbietà dei membri del comitato paralimpico e alla partecipazione degli abitanti di Rio dagli spalti, i giochi furono un successo senza precedenti.
La narrazione dell’epopea paralimpica è intervallata dagli interventi di alcuni dei suoi protagonisti degli ultimi anni. Si assiste ad un mosaico di colori ed esperienze diverse come diverse sono le fisicità protagoniste delle paralimpiadi: alcuni atleti hanno gareggiato rappresentando un paese diverso da quello in cui sono nati perché nel loro paese non era possibile crescere per chi aveva una disabilità, o perché sono fuggiti da una guerra civile che ha procurato loro gravi perdite fisiche e affettive, altri sono rimasti nel paese in cui sono nati nonostante la disabilità fosse vista come qualcosa da nascondere, ma hanno trovato il modo di liberarsi grazie allo sport. Ci sono atleti che sono nati con una disabilità e altri che l’hanno avuta in seguito, diverse esperienze nel periodo dell’adolescenza, diverse culture, diversi modi in cui le famiglie hanno mostrato il loro sostegno. C’è chi ha incontrato il proprio idolo e l’ha superato poco dopo in gara e c’è chi corre per rappresentare la sua nazione o tribù di origine. C’è addirittura chi ha cambiato una legge del suo paese per rendere lo sport più accessibile.
Rising Phoenix invita a celebrare le paralimpiadi per quello che sono: un grande evento sportivo a tutti gli effetti, in cui lo sport è un mezzo di liberazione e scoperta delle potenzialità di ogni fisicità; un’occasione per grandi atleti di misurarsi con sé stessi e avere il riconoscimento che spetta loro; un invito alle persone con disabilità a cercare la loro strada e la loro indipendenza; un monito per tutti a progettare il futuro tenendo conto anche dei corpi non conformi.
Articolo di Margherita Dalla Vecchia