“Ready Player One” e l’esigenza di andare oltre ai filtri virtuali
di Gianmaria Busatta
Nel distopico 2045 la Terra è inquinata e sovrappopolata; le persone vivono in immense baraccopoli sviluppate in verticale e tutta l’America “ha smesso di lottare per quel che importa”. Wade Watts è un ragazzo di 17 anni che vive con la zia a Columbus, nell’Ohio, su un grattacielo fatto di container e roulotte.
Al fine di evadere dal degrado della vita reale di tutti i giorni, per lavoro, istruzione e intrattenimento puro Wade e tutte le altre persone si rifugiano in OASIS, un mondo virtuale di dimensioni incommensurabili, creato dal celeberrimo programmatore James Halliday.
Alla sua morte, Halliday annuncia tramite il suo avatar che il suo patrimonio di 500 miliardi di dollari e la proprietà della piattaforma OASIS verranno ereditati da colui che avrà trovato l’easter egg all’interno dell’universo virtuale.
Wade – che in OASIS si chiama Parzival – insieme all’amico Aech e alla misteriosa Art3mis parte quindi alla ricerca delle tre chiavi nascoste necessarie per ottenere l’easter egg, obbligato a fare i conti anche con persone ed utenti poco raccomandabili.
Questo è Oasis. Un posto in cui il limite della realtà è la tua immaginazione.
Spielberg traduce sul grande schermo l’omonimo romanzo fantascientifico, pubblicato nel 2010, firmato da Ernest Cline, che è anche co-sceneggiatore del film, snellendo la grande mole citazionistica contenuta nel libro.
Ready Player One è infatti un tripudio di riferimenti alla cultura pop degli Ottanta – Spielberg ci piazza in mezzo qualche autoreferenza – da Ritorno al futuro a Star Wars, dal Gigante di ferro (nella foto) a Godzilla, da Take On Me, celeberrimo brano degli a-ha, all’abbigliamento di Micheal Jackson in Thriller.
La visione del film si declina quindi in un’efficace esperienza immersiva, in grado di coinvolgere lo spettatore in un’avventura emozionante ed appagante, in cui è impossibile non tentare di scovare tutte le citazioni disseminate nel lungometraggio.
A livello tecnico Spielberg punta a massimizzare la spettacolarizzazione degli scenari e della computer grafica, abbandonando in buona parte del film la macchina da presa e sposando la tecnica della performance capture, già sperimentata in Le avventure di Tintin e Il Grande Gigante Gentile.
Complice una sceneggiatura scoppiettante e densa di dialoghi, il ritmo della narrazione risulta tutt’altro che piatto: il film è straordinario poiché tiene lo spettatore incollato alla poltrona, diverte e ha tutte le carte in regola sia per stupire coloro che con gli anni Ottanta hanno avuto poco a che fare sia per far leva sull’emozione nei confronti di tutta quella generazione cresciuta con la cultura pop di quegli anni.
Ready Player One non stimola solo il fattore nostalgia, ma approfondisce con un approccio critico l’alienazione sociale che oggi viviamo mediante i social network. Rifugiarsi su piattaforme virtuali (sia nel presente di oggi sia nel film), significa dedicare del nostro tempo a fissare uno schermo, lasciando sempre meno spazio anche ai più semplici contatti umani.
Certo, il bisogno di evadere dalla realtà è un bisogno insito nell’uomo: è impensabile evitare qualsiasi forma di intrattenimento, o non dedicare mai del tempo a se stessi. Tuttavia, la realtà e le relazioni sociali non hanno bisogno di filtri, video o immagini: è sufficiente ed essenziale il contatto umano diretto e genuino.
La Valutazione
3,5 stelle di 5
Il trailer
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