Cosa loro…o Cosa nostra?: Peppino è vivo, e lotta insieme a noi
Peppino Impastato è stato ucciso da Cosa Nostra il 9 maggio 1978.
In un piccolo paese della provincia palermitana, tra gli anni Sessanta e Settanta, Giuseppe Impastato cercava di cambiare le cose.
Quelle cose che erano tali da fin troppo tempo, in un’Italia che non conosceva ancora bene cosa significasse mafia e criminalità organizzata.
Un Paese, quello, in cui stare zitti era la prima regola per sopravvivere, per andare avanti senza problemi, per avere sicurezza.
Quella degli Impastato era una famiglia che aveva legami con Cosa Nostra, in particolare con Gaetano Badalamenti, detto Tano, che di Cinisi e dintorni fece il suo regno.
E Peppino?
Peppino capì che ciò che lo circondava non era giusto. Non era giusto che i piccoli esercenti venissero minacciati per il pizzo, che non si potesse avere libertà di pensarla diversamente da tutti, che certi nomi non si potessero fare, che venissero fatti affari sporchi per costruire un aeroporto in una zona che non era di certo adatta a quello scopo.
E così, dopo tante indagini fatte, tanti articoli scritti, tante persone tirate in ballo, Peppino decise di aprire una radio. Una delle tantissime piccole radio indipendenti che nascevano in quegli anni, e la chiamò Radio Aut.
Assieme a qualche amico, iniziò a diffondere per Cinisi la sua voce, inventando un universo in cui Badalamenti era un capo indiano, Tano Seduto, e in cui poteva prendere in giro la mafia. Perché credeva che fosse quello l’unico modo per farla atterrare nel mondo, quello vero, spodestandola dal trono celeste che si era inventata. Per far capire alla sua gente che era necessario ribellarsi, smetterla di sopravvivere e iniziare a vivere.
La sua era un’Italia che usciva dal boom e che sviluppava la mentalità dell’Io, dell’egoismo sfrenato. E Cosa Nostra, che di “nostra” non ha nulla, non faceva che nascondere, dietro una maschera di favori, protezioni e aiuti, un’immensa valanga di ego, di distruzione del “noi” a favore dell'”Io” supremo.
E così, le due mentalità, quella della società e quella della mafia, si fusero indissolubilmente, nel silenzio generale.
La mattina del 9 maggio del 1978 non fu una mattina come le altre: il corpo crivellato di colpi di Aldo Moro fu trovato all’interno di una Renault 4 rossa in via Caetani, a Roma.
E in quella stessa mattina, dopo una notte di ricerche senza sosta, gli amici di Peppino capirono che quello che i giornali avevano dipinto come un atto terroristico ai binari della ferrovia di Cinisi, in realtà nascondeva altro.
Giuseppe Impastato fu ucciso e fatto esplodere dai mafiosi di Badalamenti, facendo saltare in aria anche le sue idee di rivoluzione.
La sua storia venne oscurata dal fatto nazionale di Moro, passata in sordina in una giornata nera per il Paese.
Fosse successo un altro giorno, forse ci sarebbe stata una prima pagina diversa, ma questo poco conta.
Nel 1978, Cosa Nostra aveva vinto ancora.
Parlare con uno degli amici di Peppino fu illuminante.
Nel suo viso, ormai solcato dalle rughe, non scorsi il minimo segnale di biasimo, di vendetta.
Forse per gli anni, forse per le tante, troppe oscenità commesse dalla mafia, non aveva più gli occhi visionari che mi ero immaginato.
Ma continuò a pregarci, a supplicarci di iniziare a vivere concependo la vita come un’esistenza collettiva, una pluralità, un “noi“, che di certo non avrebbe riportato in vita Peppino e gli altri milledue morti per mano mafiosa, ma avrebbe fatto sopravvivere le sue idee in noi.
E così è stato.
Con le idee e il coraggio di Peppino, noi continuiamo.