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Sono tanti i visi che Paolo Veronese mostra nell’esposizione “L’Illusione della realtà”, ospitata al Palazzo della Gran Guardia dal 5 luglio al 5 ottobre 2014.
Il titolo enigmatico non è di facile interpretazione e forse proprio in questo risiede la sua bellezza. Riconoscibilissimo per soggetti e colore, non ci si aspetta grande ambiguità da questo pittore, ricordato dal curatore della mostra Bernard Aikema come un “artista del colore più che del messaggio”.
Tuttavia, il talento del Maestro Veronese riserva sorprese e domande: le decorazioni in villa e i dipinti religiosi che fecero il suo successo non offrono l’intera gamma di temi e personaggi rappresentati dall’autore. Grande spazio all’interno della mostra assumono i soggetti mitologici, la faccia meno conosciuta del pittore.
La sensualità come chiave di lettura dei dipinti “Marte Venere e Cupido” (1570-1575) o “Il ratto di Europa” (1578) sorprende il visitatore e porta a curiosare fra queste opere, che giungono inaspettate dopo i tanti ritratti aristocratici e gli affreschi religiosi. Eppure, l’intento della tavolozza che dipinge il dio della guerra e la dea dell’amore è inequivocabile, come le intenzioni di Giove nel rapire Europa, sotto le spoglie di un toro mansueto.
L’intimità in cui vengono ritratte le divinità non è il solo elemento inusuale riservato da questi lavori: il pittore, infatti, proprio in questi momenti inserisce una pennellata comica che ruba l’attenzione e va a costituire il focus centrale del quadro. Fra Marte e Venere s’intromette Cupido, una prima volta per richiamare il dio al suo dovere; una seconda, per attirare l’attenzione della madre, spaventato da un cane, che in basso a destra riesce a rubare la scena.
Sensualità e comicità, componenti inattese del talento del pittore, non si limitano a comparire nei dipinti profani: anche in “Giuditta con la testa di Oloferne” (1580) la seduzione dell’abito, che lascia scoperto parte del corpo di Giuditta, s’insinua nella religiosità dell’opera.
Le committenze ecclesiastiche, quindi, preteso il messaggio religioso, teologico e spirituale, non poterono nulla, nel frenare le iniziative del Veronese, che in un altro lavoro, la “Pala Bevilacqua-Lazise ” (1548) apporta al tono serio una nota forse esorcizzante, forse rispettosa, dipingendo un pappagallo. Animale da alcuni elevato per la tradizionale credenza che gli attribuisce il verso “AVE”, e da altri ritenuto un animale sciocco.
Un altro esempio delle vaste capacità dell’artista si trova in “Allegoria della Virtù”, ritratte fra il 1555 e il 1556, in cui il messaggio religioso si fonde con un linguaggio illusionistico. La Speranza, virtù che più facilmente si presta ad una lettura laica, è incarnata nella figura di una donna che volge al cielo lo sguardo, esprimendo “la consapevolezza della missione” dalla definizione della curatrice Paola Marini. La Carità, al contrario, scontatamente legata al cattolicesimo, è rappresentata attraverso una donna, impegnata nell’allattamento di due bambini, gesto vicinissimo alla tenera quotidianità che si allontana dalla sacralità del contesto.
Essenziale però è ricordare quanto i tratti caratteristici del pittore lo contraddistinguano dai suoi contemporanei e impregnino i suoi lavori.
Il titolo della mostra, “L’Illusione della realtà”, seppur allusivo, riporta ai punti fermi del pennello di Paolo Veronese. Il dualismo di componente illusoria e razionale, infatti, fa riferimento al rapporto fra lo spazio illusionistico dipinto e spazio reale, regolato dal marchio distintivo dell’autore: l’architettura.
L’ elemento architettonico rigoroso e onnipresente detta legge a prescindere che dipinta sia sacralità, profanità o aristocrazia. Esso diviene un’opportunità nell’invenzione di sfondi per personaggi spesso rappresentati come eleganti fermi immagine tratti da messe in scena teatrali.
La severità con cui il Maestro dipinge colonne, archi e prospettive però non è solo a dimostrazione della tecnicità del gesto: essa infatti nell’ “Annunciazione” (1556) crea, con le due colonne ai lati del quadro, uno scenario architettonico preciso e simmetrico, il cui punto di fuga centrale attira il visitatore e lo trattiene all’interno del verde dipinto a sfondo, tanto che un nonno spinge le nipoti a curiosare nel giardino.
Altra caratteristica portante delle opere è l’uso del colore: il curatore Bernard Aikema ha definito Veronese come un “decoratore” e a questo proposito ha parlato Nicholas Penny, direttore della National Gallery di Londra a cui si deve il prestito di alcune fra le oltre cento opere esposte.
Egli sostiene che sono alcuni colori a determinare l’appartenenza dei dipinti al Maestro: il verde mela, il rosa, il rosso vermiglio giustapposti in contrasti che illuminano i quadri senza bisogno di ricorrere a troppi giochi di luci ed ombre. Colori che sono presenti fin dagli esordi, quando il pittore a meno di vent’anni dipinse la “Conversione di Maria Maddalena” (1548).
Tante le aspettative da questa raccolta, che vengono superate senza fatica da un percorso di colori, spazi, temi e sorprese che rende Paolo Veronese più imprevedibile di come lo vuole la tradizione.
Non solo parole supportano la tesi di una maestria inimitabile: sarebbe facile elevare a classici irraggiungibili nomi come Paolo Veronese in un momento storico come il nostro, quando ci distanziano quattro secoli, la poca e diffusa voglia di raggiungere obiettivi ambiziosi e la vergognosa scusa che si può rinunciare perché tanto non lo fa più nessuno.
La prova di quel talento arriva in un momento a lui contemporaneo. Pochi anni dopo la sua morte, il “Convito di Levi” (1588-1591) fu ultimato dal fratello Benedetto e i figli Gabriele e Carletto e non lascia scampo neanche a chi fu più vicino al Maestro. I tratti di pennelli diversi si riconoscono in uno stile che non riesce ad essere omogeneo, secondo Thomas Dalla Costa.
Inimitabile perfino da chi lo conobbe, la distanza non ha credibilità come scusante: perciò, ai contemporanei di oggi, è bene ricordare quanto quei nomi siano da custodire come esempi più che ricordi.
di Andrea Francesca Franzini