(clikka per il pdf del numero di ottobredi Pass) La riduzione assiologica della Natura a risorsaderiva dalla trasposizione del concetto entro il moderno paradigma della scarsità: operatore logico dominante l’intero immaginario dell’homo Oeconomicus, colui per il quale nulla muove un passo al di là della messa a profitto. La Natura, in sostanza, sarebbe un oggetto fisico dotato di una certa qualità ed estensione – nonché rarità e limitatezza che ne accrescono il valore commerciale – predisposto unicamente per l’utilizzo finale umano. Una chiave di lettura fortemente antropocentrica, che scaturisce dal retaggio Cartesiano noto come dualismo ontologico. L’avvilimento della natura a res extensa su cui il cogito avrebbe un primato assoluto, infatti, consente di postulare dapprima la completa esteriorizzazione dello spazio vissuto, imprimendo al mondo un’irrimediabile omogeneità materiale che respinge ogni interiorità, e dunque – con Bacone – a riassumerne la specificità entro i canoni del dominabile, asservibile ed operabile.
Non dappertutto è così e non sempre lo è stato, sia chiaro. Il cosmo dell’impresa scientifica, ove la natura ha valore solamente a posteriori in veste di corrispettivo monetario legato ad una stima di produttività, si palesa quale prodotto culturale tipico dell’occidente. La geografia degli hadzabe tanzaniani, per fare un esempio agli antipodi, gemellando radicalmente l’universo dei vivi con quello dei morti, sacralizza la totalità dell’entourage mediante la presenza dei resti del defunto nei più comuni luoghi fisici; circostanza che dona perciò alla terra non il semplice statuto di mezzo di sostentamento quanto il carattere inalienabile di canale diretto con gli antenati. Cercare di sfruttarla sarebbe, per essi, un insulto alla memoria stessa. Un atto semplicemente inimmaginabile, scrive il biologo Wells.
Le cose, si è detto, funzionano in maniera diversa nel progredito occidente. Una miope esegesi del testo biblico unita alla negazione di spiritualità e intelligenza al regno della Natura, nei secoli sono giunte a plasmare i nostri luoghi del pensiero, radicando erronee convinzioni su piante e animali sino a legittimarne non solo lo sfruttamento, ma la relativa riduzione a puro funzionamento meccanico.
Parliamo della Natura come ne fossimo lontani spettatori, sguardi disincarnati che ereditano il mito di una tecnologia messianica, pronta a liberarci da un ambiente condizionante e opprimente… quando invece, molto più semplicemente, essa erge un milieu di apparati e mega-macchine ancor più vincolante e asfissiante del primo.
Dovremmo forse persuaderci, da un lato, che l’ecologia non andrà molto lontano finché resta imbrigliata nell’attuale logica economica, e dall’altro che l’uomo è prima di tutto una traccia di ciò che la Natura è stata, pur essendole contemporaneo. In Schelling, la Natura è il presente che precede il nostro venire al mondo, l’abisso di passato che si spalanca sotto ogni creatura e che ci consente di apparire. Stiamo parlando della trama fondamentale di ogni vita, non semplicemente di un oggetto fisico. E se, con Merleau-Ponty, arriviamo ad ammetterne la qualità di Logos primordiale che si manifesta e ci chiede di essere colto, parlando di noi e insieme con noi, allora forse potremmo davvero accostarci ad essa con occhi nuovi.
Ricordiamoci dell’inestricabilità di carne e spirito, e perciò – inevitabilmente – che percepire non è conoscere quanto primariamente la nostra unica modalità di essere al mondo. Il corpo vissuto, spiegava Husserl, è il fulcro da cui si declinano movimento e quiete, è la cerniera della nostra apertura al mondo.
Dimenticare il rapporto carnale che intratteniamo con la familiare alterità della Natura, per ridurre questa a oggetto e noi a puro Cogito, significa spogliarci dell’unica vera possibilità di instaurare un dialogo con lei… significa rinunciare a conoscerci e piombare così nel più buio solipsismo.
di Michele Cavejari
Le riflessioni di questo pezzo hanno preso forma anche grazie ad un interessante corso di Filosofia del linguaggio (m).