FuturoFemminista: Intervista a Vera Gheno
Vera Gheno è una sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer. Si occupa del linguaggio sui social e del comportamento linguistico che le persone utilizzano sul web. Per questo viene chiamata “social linguist”.
In questa intervista affronteremo temi quali il femminismo e la declinazione delle professioni al femminile, ma parleremo anche di inclusività e di soluzioni per l’utilizzo di un linguaggio più consono e volto all’inclusione.
Innanzitutto, perché la chiamano “social linguist”?
Ho scelto di occuparmi, tra tutte le linguistiche, di sociolinguistica, ovvero quella che si occupa di studiare la lingua come strumento e specchio dei parlanti. “Social linguist” è nato un po’ per scherzo, perché buona parte della mia attività di linguista avviene e si sviluppa sui social; quindi, mi è stato dato questo nome in maniera semi seria, però funziona e mi si è appiccicato addosso.
L’utilizzo dei social quanto ha influito sulla diffusione del suo lavoro? Quanto è difficile continuare a divulgare, soprattutto determinati temi, sui social senza venire bombardati costantemente?
Diciamo che siamo appena all’inizio dell’uso dei social come mezzo di divulgazione. Bisogna avere pazienza e capire come pian piano i social media possono diventare un ottimo scenario, utile per fare divulgazione. Il problema è che, in generale, quest’ultima, è sempre stata vista come il ruotino di scorta della cultura; quindi, c’è bisogno di creare una nuova consapevolezza sull’utilizzo e sulle possibilità che si hanno su queste piattaforme. Molte persone che potrebbero fare divulgazione sui social rinunciano all’utilizzo, poiché essi hanno regole di ingaggio diverse da altri mezzi. Bisogna imparare a conoscerli per saper fare divulgazione. Poi, come scrivevo in un vecchio libro, scritto a quattro mani con Bruno Mastroianni, «il like logora chi non ce l’ha».
Il vantaggio di stare sui social in maniera adeguata permette sia a chi fa una corretta divulgazione di farsi conoscere, ma dà la possibilità anche al pubblico di avvicinarsi a temi che spesso non si affrontano in modo consono. È il caso, per esempio, dell’uso dei femminili professionali per i quali vi sono innumerevoli opinioni differenti. Nel libro Femminili Singolari, edito Effequ (2019), che si occupa proprio dell’utilizzo del femminile per i nomi delle professioni, il sottotitolo è “il femminismo è nelle parole”. Quindi, quanto è importante il linguaggio nell’affermazione di temi che riguardano le donne?
Il linguaggio è qualcosa di intimamente correlato alla realtà, non c’è una relazione di prima o dopo tra i due, bensì un intreccio, un entanglement quantistico direi. Avanzare con la lingua è importante tanto quanto avanzare con altre cose. Chi fa il benaltrista, lo fa perché non ha mai avuto la possibilità di fare un ragionamento metacognitivo sulla lingua e di rendersi conto, per esempio, che ciò che viene nominato si vede meglio. Non avere un nome, in una società basata sulla parola come la nostra, vuol dire non esistere. È, dunque, importante usare i femminili ed è fondamentale impiantare nelle persone la consapevolezza che le parole che usano non sono indifferenti.
Perché si tende a credere che tutte queste battaglie fatte per portare avanti la causa dei femminili professionali sia esagerata e ridondante? Ciò è detto spesso da uomini, ma in realtà anche dalle donne.
Il maschio non ha subìto nessun tipo di discriminazione linguistica. La lingua è costruita attorno al maschio, è androcentrica, e lo è non per questioni di maschilismo ma per evoluzione della storia. L’uomo faceva le cose, la donna stava in casa a curare i figli.
L’uomo non ha mai avuto un problema di iporappresentazione linguistica. Spesso non ci si rende conto che non tutti hanno il privilegio di essere considerati “normali” all’interno della nostra società. Questo discorso però lo si può applicare anche alle donne. Molte di esse, infatti, non vedono la necessità di utilizzare i femminili professionali perché hanno un problema di autorappresentazione: loro stesse sentono il femminile come svilente ed inferiore. Si sono, di conseguenza, adattate ad un sistema patriarcale che evidentemente a loro va bene. Nell’uso dei femminili, secondo me bisogna guardare il quadro nel suo insieme, la big picture, per fare un favore a tutto il genere femminile. Ciò non dipende solo dal tuo gusto personale.
Si fa certamente molta più resistenza per quei femminili di professioni che non vengono associati immediatamente alle donne, alle volte considerando questi femminili cacofonici…
Noi non utilizziamo le parole in base alla loro eufonia; parliamo e diciamo parole che hanno un suono bruttissimo ma non ci viene in mente di cambiarli. Questo problema della cacofonia entra in gioco solo quando si parla di femminili professionali. Allora se è cacofonico “ministra”, lo è anche “minestra”.
Perché, secondo lei, si ha paura del femminismo?
Perché evidentemente non si conosce bene cos’è il femminismo. Bisognerebbe fare molta informazione anche su questo poiché molte persone pensano che il femminismo sia il contrario del maschilismo, quindi temono per una perdita di potere e un minore riconoscimento sociale. Invece, il femminismo è un movimento che vorrebbe più equità per tutte le persone, indipendentemente dalle caratteristiche intrinseche. Ma non è contro l’uomo, è contro le discriminazioni.
Parlando quindi di linguaggio inclusivo, rivolto non solo al femminile, quanto è difficile in una lingua come l’italiano – che quindi caratterizza per generi – parlare in modo inclusivo, senza discriminare. Come si può migliorare ed arrivare ad una totale inclusione?
Secondo me si può agire all’interno dell’alveo della tradizione linguistica, ad esempio scegliendo delle formulazioni semanticamente neutre. Invece di dire “lavoratori e lavoratrici” si potrebbe dire “le persone che lavorano”. Chiaramente, ci sono tante soluzioni “fatte in casa” per riferirsi alle persone non binarie, ovvero che non si riconoscono né nel maschile né nel femminile. In questo caso però la sperimentazione non è accettabile ancora da tutti perché è ancora in fase embrionale. La cosa più semplice che si può fare è cercare sempre di esprimersi soprattutto nelle parti che si vedono di più – inizio e fine – con delle forme che non discriminino nessuno.
Per quanto riguarda il linguaggio giornalistico, la narrazione del femminile è spesso sbagliata. Come agire per migliorare?
Uno dei compiti dei giornalisti e delle giornaliste sarebbe quello di promuovere una lingua più paritaria, anche solo usando i femminili professionali. I problemi, poi, riguardano anche il fatto che spesso quando c’è una professionista che fa qualcosa si fa riferimento soprattutto al suo essere madre. La narrazione dei femminicidi è completamente sballata; sicuramente in molti casi ci sono giornalisti e giornaliste che si impegnano a comunicare bene queste cose, ma ci sono ancora troppi casi in cui, per disattenzione, vi è una narrazione sbagliata. Penso che si potrebbero usare i social media anche a questo proposito, per poter professare contro questo tipo di trattamenti linguistici sollevando il problema. Molto spesso funziona.
È anche vero che sui social ci sono molte persone che puntano a minare questa evoluzione; infatti, in Femminili Singolari, ci sono riportati commenti presi da siti web, da post su Facebook che, con molta decisione, riportano critiche e insulti a chi non ha le stesse visioni di chi scrive questi commenti. Molto spesso si tratta di uomini, altre volte, seppur in maniera velata, sono le donne ad imporsi contro il cambiamento.
Certamente, così come il femminismo non è una questione solo femminile, il maschilismo non riguarda solo gli uomini. Ci sono moltissime donne che nel patriarcato si trovano bene e giocano secondo regole maschili, senza rendersi conto che fanno un danno alle donne e alla sorellanza.
Per concludere, qual è stata la cosa più divertente durante la scrittura di questo libro?
Di divertente non saprei, certamente c’è stato un piacere quasi sadico nel riportare tutti questi commenti, che sono anonimi. Credo che le persone vedendo stampato lì il loro commento si rendano conto di quanto abbiano fatto schifo. Una specie di vendetta servita fredda, con un intento didascalico «guarda che figuraccia fai se scrivi queste cose».
Grazie a Vera Gheno per la disponibilità. Vi invito a seguirla sui social: potete trovarla su Instagram come @a_wandering_sociolinguist.