Informazione on line e fake news
Intervista a Daniele Butturini, docente del dipartimento di scienze giuridiche
Di Irene Ferraro
Articolo comparso nella sezione “Ateneo” del n°50 di Pass Magazine
Navigando in rete alla ricerca di informazioni rischiamo di trovarci di fronte a “bufale” o fake news, costruite ad arte solo per ottenere il maggior numero possibile di clic. Cosa sono davvero questi fenomeni? Come riconoscerli e quindi difendersi? Abbiamo provato a capirci di più con Daniele Butturini, ricercatore presso il dipartimento di scienze giuridiche e docente di diritto costituzionale dell’informazione giornalistica.
Come possiamo inquadrare questi fenomeni? Cosa può incontrare l’utente di internet oggi?
Va fatta una distinzione. Innanzitutto, la fake news è semplicemente una notizia non vera, con un contenuto che non corrisponde alla verità, ma che può essere verosimile per le sue modalità di diffusione. Circolando molto rapidamente, inoltre, l’effetto virale si amplifica. Ulteriore distinzione può essere fatta anche rispetto alla fonte dell’informazione falsa. La bufala, ad esempio, può essere costruita da un potere volto a destabilizzare la società o un altro stato, a influenzare gli indirizzi politici o le elezioni, come nel caso degli Stati Uniti. Altro fenomeno è la sotto informazione, cioè una notizia che può avere un nocciolo di verità, ma che non viene accompagnata dagli elementi fondamentali per orientarsi al suo interno.
La fake news sono un problema solo dei giorni nostri?
Quello delle fake non è un fenomeno inedito, anzi. Per restare nel nostro Paese, basti pensare alla manipolazione informativa degli anni ’60 e ’70, che ha visto la costruzione di notizie false legate alla strategia della tensione prodotte dai servizi segreti e che sono state diffuse dai giornali.
Quale ruolo gioca oggi internet?
Il web facilita la diffusione di informazioni false perché non ci sono controlli e l’anonimato è garantito. Questo aggrava la situazione, rendendo difficile l’individuazione del responsabile. Oggi la velocità di consumo delle informazioni è tale, per ragioni di competizione o di attualità della notizia, che verificarne l’attendibilità diventa quasi impossibile.
Mancano i controlli: significa che non c’è una responsabilità giuridica?
Ad oggi non ci sono meccanismi di responsabilità giuridica per chi fa circolare contenuti di questo tipo. Abbiamo il reato di diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico, ma al di là di questo non ci sono tutele. Se è un giornalista che diffonde notizie false, anche tramite i propri canali social, può andare incontro a responsabilità disciplinare per violazione della verità. L’Italia, su sollecitazione di organi sovranazionali e internazionali, come la commissione europea e il consiglio d’Europa, ha alimentato un dibattito sull’opportunità di approvare leggi che sanzionino fenomeni del genere.
Questo dibattito ha già portato i suoi frutti? Quali passi avanti sono stati fatti?
Abbiamo due esempi di progetti di legge depositati: il progetto Gambaro e il progetto Zanda. Per quanto riguarda l’informazione, è più attinente il secondo, perché tende a colpire dal punto di vista penale la diffusione attraverso piattaforme on line di informazioni false, tendenziose ed esagerate. Credo che sia importante partire da questa domanda: il problema è l’informazione falsa in sé o chi la veicola? La tendenza dei disegni di legge attuali non è colpire la notizia falsa in sé, ma in quanto veicolata attraverso piattaforme digitali non legate a testate registrate e prive di un’organizzazione redazione. Quindi quella disciplina non si applicherebbe alla carta stampata o all’informazione radiotelevisiva, come se fosse impossibile che i mezzi tradizionali veicolino bufale.
Questo aspetto è tipico solo del quadro italiano?
Si, è una peculiarità del nostro dibattito sul tema. Due sono i profili da evidenziare. In primo luogo, si ritiene che i pericoli si annidino nelle piattaforme on line perché i soggetti che diffondono notizie non sono mediatori qualificati tra la società e la notizia, come lo sono invece i giornalisti. In secondo luogo si è radicata l’idea, un po’ antiquata, che la stampa tradizionale e gli organi radiotelevisivi assicurino tale mediazione qualificata di cui il cittadino avrebbe bisogno. Credo, però, che l’informazione sia anche un dato oggettivo: qualsiasi cittadino può diffondere informazioni che hanno interesse pubblico. Dobbiamo occuparci dell’attività di disinformazione in sé, non del soggetto che la pone in essere. Queste disposizioni dovrebbero riguardare a maggior ragione il giornalista, perché c’è una presunzione di affidabilità nei suoi confronti maggiore rispetto a un soggetto che apre un sito web.
È più difficile oggi difendersi dalle bufale rispetto al passato?
Penso che sia molto difficile se non impossibile per il giornalista, per l’operatore dell’informazione, che non dispone del tempo necessario per verificare la veridicità della notizia. L’utente, invece, dispone di una grande quantità di mezzi. Il pluralismo delle fonti informative non dà la garanzia della verità assoluta, ma dà la possibilità di poter confrontare tra loro le fonti e le notizie. Il cittadino deve solo avere la volontà di approfondire e comprendere.