Immagini e a/empatia
Lo ammetto: non guardo la televisione. Figuriamoci i Tg. Tanto tempo fa decisi che se avessi voluto informazione o intrattenimento, li avrei cercati o sulla carta o nel “posto” più bello del mondo: Internet. Ancora non rimpiango la decisione.
Durante le vacanze di Pasqua, però, un giorno all’ora di pranzo mi ritrovai ad accendere l’ignorato, più che odiato, apparecchio. Di fronte a me una pubblicità che so che milioni di voi conoscete bene, in una delle sue molteplici varianti: un bambino africano, denutrito e con gli occhi tristi, fissava lo schermo, e una voce in sottofondo chiedeva di aiutarlo. Alzai lo sguardo dal mio piatto e per un momento incontrai i suoi occhi. Non sentii niente. Solo un disagio si impossessò di me, un misto di fastidio e imbarazzo che fece premere al mio dito il bottone per cambiare canale. Trasmesse dalla mia televisione, questa volta, immagini di esplosioni e persone ferite o morenti.
Ho avuto, dunque, la sensazione che siamo arrivati a guardare, ma non vedere; ad annullare la nostra mente di fronte alle disgrazie. Più ci bersagliano con questi orrori, più ne siamo assuefatti, e il tentativo di sensibilizzare e ottenere aiuti causa spesso solo indifferenza o abitudine.
Non siamo colpiti se vediamo una di queste immagini, non siamo infastiditi, irritati, e ciò non può che spaventare e rattristare. Cosa siamo diventati?
Qualche tempo dopo, tornata dalle vacanze, ebbi la stessa sensazione a una lezione di fotografia di guerra. Conflitti dall’Ottocento fino ai giorni nostri, fotografi e foto che fecero storia, una dopo l’altra, a distanza solo di un clic. Fu il conoscere la storia dietro questi volti, come vivevano le loro esistenze, come morirono, che attivò il pulsante dell’emozione, dello shock. Fu il sapere che “erano persone”, per quanto orribile questa frase possa sembrare, con volti, vite e passioni.
La natura ci ha disegnato in modo da essere disgustati dalla vista del sangue, del dolore, e ad avere reazioni diverse solo se la persona colpita non è un estraneo ma qualcuno vicino a noi, a cui vogliamo bene o in cui ci identifichiamo. Solo in questi casi siamo motivati a ridurre la sofferenza invece di allontanarci fisico-psicologicamente da essa.
La mia apatia era stata sconfitta dall’empatia, ma l’empatia non poteva arrivare senza una storia. È qui che entrava in gioco la potenza delle parole. Ma quella non c’era quasi mai.
Mariella Rendon