“Ho promesso che parlerò”. Il lungo viaggio di Edith Bruck nella memoria della Shoah
Si è svolto nel pomeriggio dell’1 febbraio, al Polo Santa Marta, il secondo incontro della rassegna in occasione della Giornata della Memoria dal titolo “Ho promesso che parlerò. Il lungo viaggio di Edith Bruck nella memoria della Shoah”, con la sopravvissuta Edith Bruck, mediato dalla storica e giornalista Michela Ponzani e con l’intervento del docente di Storia contemporanea, Renato Camurri.
A seguito dei saluti istituzionali da parte della delegata al Public engagement dell’Università di Verona, Olivia Guaraldo, che ha espresso la sua felicità nel poter finalmente riaprire le porte dell’università alla cittadinanza esterna. Il professor Camurri ha presentato brevemente Edith Bruck e Michela Ponzani, che collegate via Zoom, ci hanno portato alla scoperta della storia di Edith, sopravvissuta ai campi di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, Dachau e Bergen-Belsen.
Partendo dal suo libro Il Pane Perduto, pubblicato nel 2021, Edith Bruck inizia a raccontare la sua storia e il significato di questo titolo, legato al giorno dell’arresto, nel 1944. L’inferno, però, inizia prima per la famiglia di Edith, infatti, già nel 1941, quando l’Ungheria entra in guerra al fianco della Germania e dell’Italia, la vita, per questa e molte altre famiglie ebree, diventa molto difficile. «Tutti in Ungheria erano fascisti. Grandi e piccoli. Se io, o qualcuno della mia famiglia usciva di casa, rischiava di essere picchiato dai più grandi e di ricevere insulti e sputi dai bambini».
Erano le 5 del mattino della primavera del 1944 e sua madre stava finendo di preparare il pane azzimo in vista della pasqua ebraica, quando i gendarmi ungheresi fecero irruzione in casa «Ci dissero che avevamo 5 minuti per preparare una borsa con un cambio di vestiti. Mio padre, che aveva combattuto nella Grande Guerra, prese le sue medaglie e gliele mostrò con la speranza che potessero aiutarci, ma un ragazzino, avrà avuto 17 o 18 anni, della gendarmeria fascista lo schiaffeggiò dicendogli che non valevano più nulla». Trascorsa la prima notte nella sinagoga del loro paese sono poi stati trasportati al ghetto più vicino, dove vi trascorsero qualche settimana, prima di essere caricati sui carri bestiame con direzione Auschwitz. «Mia madre ripeté per tutto il tempo del viaggio ‘il pane è perduto, il pane è perduto’, al momento dell’irruzione, infatti, i soldati avevano rovesciato l’impasto sul pavimento. Poi si mise a intrecciarmi i capelli, questo gesto mi fece capire che stava succedendo qualcosa di brutto, perché, a casa, mia mamma i capelli non me li intrecciava mai perché non aveva mai il tempo per farlo».
Edith racconta di come, nel corso di questo inferno, riesce a identificare ‘cinque punti di luce’, ovvero cinque momenti e gesti che le hanno dato speranza. Il primo di questi lo prova appena scesa dal treno ad Auschwitz-Birkenau: lei, insieme alla madre, era stata infatti mandata nella fila di sinistra, che significava la camera a gas, ma un soldato tedesco le sussurrò all’orecchio di andare a destra. Lei, non volendo separarsi dalla madre, disse di no, «Mia madre lo supplicò di lasciarmi con lei, si inginocchiò, cosa che per una donna ebrea era inaccettabile, ma il soldato le diede un colpo in testa con il calcio del fucile e poi mi spinse nella fila di destra, dove c’era mia sorella. Poi ci portarono via. Fu l’ultima volta che vidi mia madre».
«Io e mia sorella resistemmo a Birkenau per quasi tre mesi. La vita a Birkenau, se si può chiamare così, era una continua selezione», continua Bruck. «Presto mi accorsi come noi donne fossimo più brave a scampare la camera a gas. I “dottori” della selezione, infatti, si basavano su piccoli dettagli per decidere che farne di te: se eri troppo pallida o avevi un solo foruncolo, eri morta». Lei e altre donne riuscivano a “truccarsi” con un po’ di fango, come se fosse fondotinta, e della carta colorata bagnata come blush, per sembrare più sane.
I tre seguenti punti luce, li trova a Dachau e nei suoi sottocampi, dove era stata trasferita insieme alla sorella: uno di questi quando ha lavorato per un breve periodo nella cucina di un castello poco fuori il campo, un cuoco le chiese come si chiamasse «Quando me lo chiese, rimasi intontita per un attimo. Quando gli risposi, lui mi disse che aveva una figlia della mia età, e mi regalò un pettinino da uomo. Fu una semplice domanda, ma mi ricordò che io ero una persona, che esistevo, che non ero solo 111152, ma Edith».
L’ultimo di quelli che Bruck definisce “punti luce”, lo prova alla fine della sua prigionia, dopo essere sopravvissuta ad una marcia della morte che, dal campo femminile di Bergen-Belsen, attraversando la Sassonia, l’ha fatta tornare a Bergen-Belsen, ma nel campo maschile. Lì le è stato dato il macabro compito di trasportare i cadaveri alla tenda della morte, una piramide immensa fatta di cadaveri. Una volta però, quei corpi che stava spostando avevano ancora della vita in loro: «Era il loro ultimo balbettio, l’ultima parola, mi hanno detto: ‘Racconta, se sopravvivi. Non ci crederanno. Racconta anche per noi’, ed ecco sono ancora qua».
Edith fu liberata il 15 aprile 1945 dalle truppe anglo-americane. Dopo l’iniziale momento di gioia, i soldati dissero loro di spogliarsi nude, così da poterle disinfettare, e per la prima volta dal momento dell’arresto ha provato un sentimento umano: la vergogna.
La liberazione però non fu come se l’aspettava. In Ungheria non aveva più una casa. In Israele, stato appena nato, non trovò la terra promessa di cui le aveva parlato la madre. Arrivò in Italia nel 1954 e riuscì a costruirsi una casa.
Essere testimoni del tempo non è facile. Lei ha iniziato sin da subito a testimoniare, anche quando non c’era nessuno disposto ad ascoltare, e ha scelto di farlo in italiano perché «l’ungherese faceva troppo male».
Il presidente Sergio Mattarella, che nel 2021 le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, in occasione della Giornata della Memoria, si è espresso contro chi minimizza e banalizza il fascismo, condannando le recenti manifestazioni di stampo fascista e antisemita, sottolinea Michela Ponzani, che poi ha chiesto a Bruck cosa, secondo lei, abbia sbagliato l’uomo in questi anni. «Il problema è che subito dopo la guerra, è stato minimizzato, negato, nascosto, ciò che era stato. Si è perso troppo tempo per iniziare ad ascoltare. Questo è stato un deficit che ci sta costando ancora oggi. L’umanità ha fallito per orgoglio».
Oggi, al contrario di allora, non possiamo dire “non sappiamo” perché sappiamo, sappiamo tutto. Non sono solo i testimoni a dover testimoniare, ma tutti, nel nostro piccolo dobbiamo fare qualcosa.
«Io penso che continuerò fino all’ultimo fiato».