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Nel 2013 Spike Jonze scrive e dirige Her e vince il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale, raccontando di un futuro non troppo lontano dal nostro che in realtà rispecchia perfettamente ciò che siamo noi adesso. Un film che è una maschera, fatta di una sfera della comunicazione ultra-sviluppata e di incredibili aggeggi futuristici, con smartphone onnipresenti e onnipotenti, videogames che se gli gira male ti pigliano anche un po’ per il culo, e una moda vintage a colori pastello che è piacevole quanto un pugno in un occhio.
Un’ambientazione quindi futuristica, in cui si narra la storia di Theodore Twombly, un tipico middle man intorno alla mezz’età vittima di una storia d’amore finita male, che l’amore, e qui sta la nota svizzera, lo trova nella calda voce del primo sistema operativo A.I del mondo: Samantha.
A leggerlo così pare una cosa fuori dal mondo. Anche a vederlo, in effetti, i primi minuti ti vien da pensare che questo omino baffuto impantanato nella solitudine e nel romanticismo si sia bevuto svariati litri di tequila e qualche chilo del suo proprio cervello. Come fa uno a innamorarsi di una voce? E’ mai possibile?
Nella risposta a questa domanda sta la magia di un film come Her. Dicevo infatti che lo sbigottimento dura i primi minuti, perché poi, incredibilmente, la voce sensuale e dolcissima di Samantha riesce a conquistarsi un pezzettino del tuo cuore, e a momenti ci credi. A far la parte grossa nel sospendere l’incredulità dello spettatore c’è allora il contesto sociale, che tu ragionando da fuori ti dici Quando i suoi amici scopriranno che sto sfigato sta insieme a un sistema operativo lo prendono per scemo!, e invece vieni fregato perché lì, nell’anno duemila e non si sa bene cosa, è normale fidanzarsi col proprio sistema operativo, come è normale pure farci qualcos’altro, ma di cose zozze ne parleremo magari un’altra volta.
In questo futuro la gente è iper-connessa con se stessa, arrivando all’assurdo che ognuno, potendo comunicare con un’infinità di qualcuno, è come se fosse segregato da solo in una stanzina senza porte e finestre. Si arriva al punto in cui tutti insieme sono soli. Pensate a voi in treno per venire in università, una massa di gente silenziosa che fissa o ascolta il proprio smartphone: chi parla da fastidio, e lo fa a bassa voce.
Questa è la maschera che cade, è qui che si parla di noi, che certo non siamo ai livelli d’asocialità e alienazione rispetto al mondo che viene mostrato in Her, ma ne siamo comunque legati e appunto criticati da Spike Jonze. Ed è puntando alla solitudine che il regista inserisce allora il vero tema su cui vuol far leva: l’amore, la felicità.
Theodore, così come tutti gli altri possessori di un sistema operativo a intelligenza artificiale, si sente bene, felice e addirittura innamorato. Sorride quando Samantha gli dice qualcosa di dolce, quando trova intesa nelle sue parole, è vivo perché trova qualcuno con cui condivide una storia. Proprio come quando tu che stai leggendo tiri fuori il telefono che vibra, leggi whatsapp, e trovi la Sua risposta e sorridi, rispondendo a quella persona senza averla di fronte, senza tenerla a portata di sensi. O come quando sei su facebook e chatti e videochiami con tre, quattro persone diverse, e ti diverti con loro, standotene solo a sorridere davanti a uno schermo, isolato dal mondo.
Caro, sbaglio o tua figlia è in camera sua e sta parlando con tre ragazzi?
Wilma, dammi la clava!
La riflessione che scatta allora è: un amore così, o un’intesa, o comunque una sensazione positiva vissuta con altri, ha forse meno valore se filtrata e limitata da delle parole nere su schermo bianco? Se riprodotta da dei suoni artificiali che trasportano l’umanità dall’altro lato del telefono?
Allacciandoci più specificatamente al film invece: l’amore come lo intende Theodore è amore vero anche se fisicamente e materialmente impossibile? E’ forse il cosiddetto amore platonico questo sentimento puro e scevro da qualunque tipo di volgarità, o è piuttosto un enorme, ridicolissimo e sterminato quantitativo di seghe mentali?
C’è quindi da capire se il limite immateriale stabilito in Her, e quindi la distanza e l’asocialità che troviamo nel nostro presente, sia qualcosa che toglie un fine alla nostra temporanea felicità, e quindi sia inutile, o meglio sterile, come lo è la nobile arte dell’autoerotismo. Dall’altro lato della bilancia però spinge l’altra verità che nella pellicola è pure presente, ovvero che nel piano delle relazioni reali, discorso questo che se ne va di pari passo nel nostro presente, non è sempre tutto facile, anzi.
Il prezzo del mettersi in gioco, del godere forse di più da un risultato tangibile, da un amore completo, da una relazione stimolante in tutti i sensi, è che comunque sia quel che costruiamo ha il rischio di finire. E ciò accade sia perché siamo sempre più incapaci di relazionarci con gli altri, e questo è assurdo proprio in virtù dello sviluppo tecnologico nell’area della comunicazione, sia perché di natura siamo insaziabili, vogliamo qualcosa, lo otteniamo, e subito cerchiamo un altro bisogno da soddisfare, all’infinito. Un discorso consumistico che esiste anche nel rapporto con gli altri, che va a quotidiani compromessi, a negazione e rifiuto della verità magari disastrata, talvolta, della realtà dei fatti.
Siamo proprio sicuri allora di non volerle le illusioni e tutti i limiti che ci danno benessere ‘effimero’? Theodore è sostanzialmente uno scoppiato ad amare un sistema operativo, o il suo amore è ugualmente meritevole di considerazione in virtù della felicità ottenuta? L’amore, in definitiva, si deve per forza toccare, o lo si può cogliere in altre maniere?
di Davide Storti
Una risposta
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