“Fahrenheit 11/9”. Moore molto anti-Trump, ma poco obiettivo
di Gianmaria Busatta
La voce è del cineasta Michael Moore, ed il suo tono interrogativo si riferisce all’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti l’8 novembre del 2016.
Moore, già autore di Bowling a Columbine, che si è aggiudicato l’Oscar nel 2003, e Fahrenheit 9/11, vincitore della Palma d’oro a Cannes l’anno successivo, confeziona un documentario che spesso non si mantiene super partes nella trattazione e descrizione dei fatti, sia nei toni sia in alcuni contenuti.
Lo stile documentarista di Moore si caratterizza per essere graffiante, schietto e diretto, sagace nel montaggio, e per tenere alti i livelli di ironia e sarcasmo, scoppiettanti e talvolta cinici.
In Fahrenheit 11/9, però, questo stile diviene fiacco e claudicante, nonostante le domande e le provocazioni di Moore stimolino lo spettatore e lo pongano di fronte a sconcertanti realtà. Tra queste non si può non citare il caso dell’acqua avvelenata nella città di Flint, la “città più povera d’America”, un j’accuse lucido e potentissimo contro le incoscienti e scellerate decisioni prese dal governatore repubblicano Rick Snyder.
Alla luce di quanto raccontato da Moore, per compiacere i suoi ricchi ed influenti elettori l’ex governatore del Michigan fece costruire un nuovo (inutile) acquedotto, la cui fonte non era più costituita dalle acque pulite del lago Huron, ma da un fiume sozzo ed inquinatissimo. Le analisi del sangue degli abitanti di Flint, compresi bambini e neonati, sarebbero poi state insabbiate e falsificate affinché i valori del piombo assunto tramite l’acqua non fossero di pubblico dominio.
E, collegata a questa terribile vicenda, Moore racconta anche la beffa provocata da Barack Obama, prima atteso e accolto come colui che avrebbe risolto i problemi di Flint, poi protagonista di una delle scene più imbarazzanti e deplorevoli mai viste.
Senza peli sulla lingua Moore non risparmia dalle critiche i politici democratici, anche loro colpevoli di aver reso il sistema guasto e corrotto (eclatante la vicenda delle primarie).
Tutti questi fatti rappresenterebbero, secondo Moore, i tasselli della marcia trumpiana verso la Casa Bianca. Tuttavia, ad ogni tassello aggiunto le tesi e l’efficacia delle argomentazioni di Moore vengono sempre meno, sia a causa di uno stile giornalistico d’inchiesta non sempre elevato (come, invece, avveniva in altri suoi documentari) sia per punti di vista sempre più soggettivi e personali, che assumono i toni di critica e lamentela e non sempre sono in grado di accompagnare lo spettatore ad avere una visione corretta e completa.
Una visione sicuramente più approfondita l’avremmo avuta se Moore avesse esplorato quell’elettorato che ha votato Trump, che lui stesso dipinge come “dittatore”, “bugiardo” e “razzista” (ma anche misogino).
Pertanto, un conto è mettere in fila (anche se in modo piuttosto disordinato) solo quei tasselli presi in considerazione, un altro conto è indagare anche su quei problemi vissuti da un elettorato in cui Moore non si rispecchia.
In questo senso il montaggio non aiuta: sovrapporre filmati di Hitler con la voce di Trump, ad esempio, è un’argomentazione (se così si può chiamare) per certi aspetti scontata, per altri fine a se stessa, dato che in quella sequenza lo sforzo logico e cinematografico di rispondere compiutamente alla domanda iniziale è minimo (o addirittura nullo).
Un ultimo aspetto che merita attenzione è il caso della sparatoria presso la scuola di Parkland da parte di uno studente, non tanto per il tema delle armi (argomento che Moore approfondisce benissimo in Bowling a Columbine), ma per l’emozionante ed avvincente parentesi nel lungometraggio dedicata ai giovani, che, uniti, sono il cuore pulsante della società odierna.
Nonostante l’icona popolare che Moore ha generato su di sé e sui propri lavori, quest’ultimo (prevedibilissimo) documentario anti-Trump non raggiunge l’altezza delle opere precedenti: le argomentazioni che Moore adduce sono tanta carne sul fuoco; ma, alla fine di tutto, ciò che si avvicina alla sua tesi è più fumo che arrosto. Da vedere, ma solo con uno spirito fortemente critico.
La Valutazione
2 stelle di 5