Esteri e reportage di guerra al Festival del Giornalismo

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Continuano gli approfondimenti sul mondo dell’informazione al Festival del Giornalismo di Verona. Esteri e giornalismo di guerra sono stati ieri al centro del dibattito della manifestazione culturale, organizzata da Heraldo Ets e dal Canoa Club. L’incontro, causa mal tempo, si è tenuto questa volta nell’auditorium della Chiesa di San Fermo. Barbara Schiavulli, Laura Silvia Battaglia e Emanuela Zucculà sono state le protagoniste della quarta giornata di Festival e hanno raccontato le proprie esperienze di documentazione e reportage nelle zone più calde e remote del pianeta.

Le prime due ospiti della serata, Barbara Schiavulli e Laura Silvia Battaglia, hanno sottolineato quanto sia importante prepararsi culturalmente, fisicamente e psicologicamente prima di intraprendere un nuovo viaggio nelle zone di guerra. «Noi preferiamo andare in paesi che conosciamo bene per scavare in profondità le storie da raccontare, soprattutto dei civili – spiega Battaglia -. Ogni regione nel mondo è diversa così come lo sono pure i conflitti. È necessario dunque conoscere bene la storia del paese in cui si andrà e la sua geopolitica. Molto importanti sono anche i legami con i giornalisti sul luogo che spesso ci accompagnano mentre svolgiamo il nostro lavoro e che a volte abbiamo pure visto morire per noi».

Da sinistra Laura Silvia Battaglia e Barbara Schiavulli. Foto di Heraldo.

L’Italia però non ha una forte politica estera, come hanno ricordato le due giornaliste, e pure le testate tradizionali italiane tendono a dedicare poco spazio agli esteri. Le notizie che si trovano sui giornali infatti spesso trattano i temi esteri a un livello più superficiale, oltre a parlare solo di alcuni paesi.

Perché dunque un cittadino italiano dovrebbe essere informato su cosa accade in zone molto lontane come lo Yemen o l’Afghanistan? «Non esistono dei confini, ma tutti siamo collegati e interconnessi – spiega Schiavulli -. Il Covid stesso ci ha dimostrato come una notizia che arriva da lontano può avere poi delle ripercussioni anche in Italia. Non si parla ancora di molti paesi sui media e se non ci sono i giornalisti sul posto, non si sa che cosa accade. Le vittime dei conflitti spesso vengono ridotte a meri numeri, ma queste persone hanno dei sogni, dei desideri e noi cerchiamo di dare voce alle loro storie».

Un altro motivo che ha determinato però una trattazione superficiale dei fatti esteri sono i tagli sulle assunzioni dei corrispondenti e pure i sui compensi dei collaboratori. Ci sono dunque sempre meno giornalisti nelle zone di guerra.

I freelance che decidono di recarsi nelle zone calde del pianeta, come Schiavulli e Battaglia, devono collaborare per più testate e avere anche la capacità di adattare i propri prodotti giornalistici a diversi media e clienti oppure devono avviare una raccolta fondi per poter partire e pagare tutte le spese necessarie per il viaggio e il lavoro giornalistico.

«Fino a 10 anni fa lavoravi per quattro giornali e riuscivi a pagare tutto – spiega Schiavulli -. Oggi invece non riesci nemmeno a coprire le spese. Il diritto all’informazione è fondamentale. C’è molto interesse da parte della gente nel sapere cosa accade fuori dall’Italia. Riesco infatti ad autofinanziare tutti i miei viaggi di lavoro attraverso campagne di crowdfunding con Radio Bullets, che vorrei nel tempo riuscire a rendere sostenibile».

Emanuela Zucculà al Festival del Giornalismo. Foto di Heraldo.

La serata di ieri è poi proseguita con l’incontro con Emanuela Zuccalà, giornalista freelance, scrittrice e regista, specializzata in diritti delle donne. Ha presentato il suo ultimo libro, Le guerre delle donne (Infinito Edizioni) e il documentario La scuola nella foresta, vincitore di vari premi.

«Il tema delle mutilazioni genitali femminili sulla stampa italiana è spesso trattato attraverso pregiudizi o per dare chiavi di lettura fuorvianti – avverte Zuccalà -. Per esempio, è da sfatare il mito che le mutilazioni genitali femminili siano una pratica diffusa solo nel mondo islamico. Sono praticate da mussulmani, cristiani, animisti, dagli appartenenti a tutte le religioni».

«Non dimentichiamo che l’Africa non è una realtà unica – aggiunge la giornalista -, ma le differenze fra le nazioni possono essere enormi». In Somalia, ricorda ancora Zuccalà, la pratica delle mutilazioni genitali femminili coinvolge il 98% delle donne, mentre in Uganda solo l’1%. «Mentre in alcuni stati hanno fatto molto per vietarle a livello legislativo, come in Kenya – ricorda la scrittrice -, in Liberia il governo è riuscito a imporre uno stop solo per un anno».

Proprio sulla situazione della Liberia si concentra La scuola nella foresta, documentario di circa 20 minuti proiettato ieri sera. Qui i gruppi di attivisti e femministi si scontrano con il potere politico della società segreta femminile Sande. Un documentario intenso, che trascina in pochi minuti nella realtà di oppressione raccontata dall’autrice.

Alle “bush schools”, (dove bush in inglese significa cespuglio e da cui deriva il titolo del filmato), si accede tramite il taglio del clitoride e qui viene insegnato tutto quello che ci si aspetta dalle donne: il rispetto degli anziani, i loro doveri di future mogli e madri, le danze e i canti. Ma le bambine e ragazzine che vi accedono sono destinate a non avere un’istruzione e condannate all’analfabetismo.

«Ho scelto il tema delle mutilazioni genitali femminili perché è emblematico della situazione delle donne nelle società patriarcali – spiega Zuccalà -. È una tematica su cui il femminismo africano ha fatto la sua forza».

All’articolo ha collaborato Alessandro Bonfante.

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