Cosa loro…o Cosa nostra?: Io speriamo che me la cavo
“Io speriamo che me la cavo” è il risultato delle penne di 60 alunni del maestro Marcello D’Orta. Testi che, nonostante la loro brevità e lontananza dalla retorica, hanno saputo convincere molto di più di un qualsiasi articolo di denuncia, perché raccontati da chi le bugie non le sa dire.
Si presenta con un titolo esilarante e sgrammaticato, marcato da un’ironia inconsapevole di chi non conosce le parole per descrivere ciò che lo circonda: un bambino. Vi converrà almeno per una volta lasciare da parte tutte le regole della grammatica e sintassi, perché questo libro può darvi molto di più.
Leggi anche il precedente articolo della rubrica su Peppino Impastato.
Caso editoriale del 1990, dopo un articolo de ‘Il Mattino’ assiste a un boom che lo porta a realizzare 5 edizioni nello stesso anno per l’editore Mondadori. Ma il vero autore del libro non è Marcello D’Orta, ex maestro elementare nelle scuole di Arzano e Secondigliano (NA) morto nel 2013, ma i suoi alunni. L’unica cosa che ha fatto è stata organizzare i testi in “una sorta di collage” come racconta ad Alessandro Ferrucci in un’intervista del 2010.
La questione all’epoca lo portò fino in tribunale per aver rubato i diritti d’autore ai bambini: un tentativo dei genitori di trarre più vantaggio possibile da quella ‘disgrazia’. Proprio così fu definito quel libro, una sciagura, che nell’arco di pochissimo tempo accese i riflettori sulla piccolissima città di Arzano, a metà strada fra Napoli e Scampia. D’improvviso i cittadini si sentirono investiti da una valanga di vergogna per aver visto i loro fatti venduti, quando altrettanti erano quelli da raccontare sui paesi accanto.
Difatti, nonostante i bambini avessero solo 10 anni, con i loro temi dipingono una realtà difficile e fatiscente. Esempio è il 73esimo tema dal titolo “Il maestro ti ha parlato dei problemi del Nord e del Sud. Sapresti parlarne?”. Nel testo si racconta che mentre al Nord il problema era il maltempo, “i guai sono un po’ molti al Sud, e io non li posso scrivere tutti; ora farò solo un piccolo elenco di guai”. Il ‘piccolo’ elenco prevedeva venti voci, fra le quali troviamo “1° Miseria”, “5° Camorra”, “8° droga”, “9° Miseria” (sì, l’ha ripetuto due volte), “14° Dialetto”, “16° Le scuole non hanno i banchi”, concludendo poi con “20° altri guai”.
Proprio l’ottavo punto, la droga, è un argomento che ricorre spesso negli elaborati dei bambini, che imparano dai genitori a non accettare “caramelle drogate da nessuno” e che “per avere un grammo di droga bisogna spendere dieci milioni, ma i drogati sono tutti poveri e allora rubano”. Così “a me mi fanno pena i drogati, ma ho paura”, anche se non sanno che alcuni di loro qualche anno dopo diventeranno le stesse persone da temere, come racconta Anyash, ex studentessa D’Orta e una delle piccole autrici del libro, in un’intervista di Ferrucci.
Per nulla appreso invece era il concetto di rispetto delle donne: nei temi delle bambine non emerge minimamente (forse gli stessi editori hanno ignorato quest’aspetto), mentre dalle voci dei maschietti si capisce come fosse normale che un uomo desse “un calcio alla pazza per la paura che si era preso”, anche se “il calcio non glielo davo quel giorno ch’era l’8 marzo, un altro giorno sì”.
I bambini sono come spugne che assorbono tutto e questo libro ne è la prova. A tutti i problemi su larga scala, come la Camorra, si aggiungono le realtà famigliari, profondamente provate da questa situazione. La famosa frase e titolo “Io speriamo che me la cavo” veniva utilizzata da un bambino per scrivere della parabola sulla fine del mondo, quando “ci sarà un confusione terribile”, “le anime andranno e torneranno dalla terra per prendere il corpo”, “il sindaco di Arzano e l’assessore andranno in mezzo alle capre (che vanno all’inferno)”. Forse anche lui si sentiva come nel mezzo di un giudizio universale, o peggio in una roulette russa, che non fa distinzione fra buoni e cattivi.